Marina Cvetaeva, con la sua maestria, riesce a trascinare, destabilizzare, incendiare il lettore.
Più di ogni altro poeta russo del primo Novecento, la sua voce è caratterizzata da una straordinaria aderenza al sentimento. Ogni registro linguistico è impregnato di emozione, come se la parola fosse modellata direttamente su una materia incandescente. Non a caso, Cvetaeva stessa scriveva:
“La lirica pura vive di sentimenti. I sentimenti sono sempre uguali a se stessi. Non hanno evoluzione, come non hanno una logica. Ci sono stati ficcati dentro il petto – come fiamma di una torcia – fin dalla nascita.”
Nata a Mosca nel 1892 e morta suicida a Elabuga nel 1941, Marina Cvetaeva attraversa rivoluzioni, guerre, esilio e povertà. Ed è forse questo l’elemento che più caratterizza la sua poesia, rendendolo forte quella ricerca di un tu, quanto la cronaca di uno scacco esistenziale.
I destinatari delle sue liriche – uomini o donne, reali o idealizzati – compongono una costellazione di amori mai appagati: il marito Sergej Efron, la poetessa Sof’ja Parnok, i grandi nomi della letteratura russa come Blok, Kuzmin e Pasternak, fino agli amanti degli anni dell’esilio. Ma se i volti cambiano, la richiesta resta la stessa: il miracolo dell’amore assoluto, perché, come scriveva in una lettera, “io devo essere amata in modo del tutto straordinario per poter amare straordinariamente”.
Secondo la curatrice Marilena Rea, che ha curato diverse edizioni per Passigli Editori, la poesia di Cvetaeva è una “calda marea lirica” alimentata dall’amore come forza cosmica. Un amore che brucia e divora, che fa della parola un vulcano di immagini: il cuore come vulcano in eruzione, la voce poetica come fiamma che consuma e illumina.
Riscoprire Marina Cvetaeva e il suo “Scusate l’Amore” significa lasciarsi toccare da un’energia poetica unica: quella di un’anima che non ha mai smesso di bruciare, chiedendo all’arte ciò che la vita non poteva darle: “una marea chiamata amore, che ancora oggi travolge chi la incontra”.
Ribadisco prossima all’addio,
alla fine imminente dell’amore,
che queste mani tue
ho amato imperiose
e gli occhi – chi, chi altro
hanno degnato di uno sguardo? –
che esigono indietro il conto
da ogni sguardo casuale.
Tutta ti ho amata, e la passione
tua maledetta – m’è testimone Dio! –
che esige indietro il saldo
per ogni sospiro sfuggito.
E in più ti dico, pure se stanca,
– che fretta hai di sentire? –
che l’anima tua mi è rimasta
sullo stomaco dell’anima.
In più ti dico quest’altro
(tanto ormai ci siamo!):
la mia bocca era innocente
prima di conoscere i tuoi baci.
Il mio sguardo era limpido,
il mio cuore – ingenuo…
Beato chi sul suo cammino
non ti ha mai incrociato.
****
Dove nasce una simile dolcezza?
Eppure non sono i primi ricci
con cui gioco, e altre labbra
ho conosciuto più accese delle tue.
Brillano le stelle, e poi buio
– dove nasce una simile dolcezza? –
Brillano i tuoi occhi, e poi li chiudi
così vicini agli occhi miei.
Eppure una simile armonia
non l’avevo ancora sentita, la notte,
assisa – o che dolcezza! –
sul petto tuo, mio poeta.
Dove nasce una simile dolcezza,
e come resistere, ragazzino
malizioso, poeta forestiero,
alle tue ciglia – che ne muoio?
****
Mi ricordo il primo giorno, la foga infantile,
lo smarrimento divino tra baci e languore,
la complicità delle mani, la compressione del cuore,
fiondato come pietra – come falco – nel petto.
Ma ora – fremendo di frustrazione e fervore,
solo: ululare, come il lupo, solo: in ginocchio,
occhi bassi – capire – che la voluttà ha il suo castigo:
un amore crudele e un ergastolo di passione.
****
Io ci sono. Tu – ci sarai. Ci divide un abisso.
Io che bevo. Tu – che riardi. Come fare a trovarci?
Dieci anni, anzi no, centomila
ci separano. I ponti Dio non li fa.
«Sii! Ora!» è il mio comandamento. O almeno
va’ per la tua strada e lasciami crescere.
Io ci sono. Tu – ci sarai. Tra dieci inverni
tu mi dirai: «Ora ci sono!», ma io: «Era tanto tempo fa…»
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