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domenica 6 febbraio – Repubblica IL DOTTOR CONAN DOYLE

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IL DOTTOR CONAN DOYLE (di SEBASTIANO TRIULZI)

Una lampada rossa accesa sulla facciata di un palazzo segnalava nell’Inghilterra vittoriana la presenza di un medico generico. Arthur Conan Doyle ne fece il titolo di una raccolta di racconti che ebbe poca fortuna (La lampada rossa)

ma che aveva l’ambizione di delineare «con qualche dose di realismo», come precisava lo scrittore edimburghese nella lettera a un amico posta a mo’ di prefazione, gli aspetti principali della vita di un medico. Inedite in Italia, queste storie rappresentano uno sguardo dall’interno su un mondo che Conan Doyle aveva deciso di abbandonare a trentadue anni, dopo un attacco influenzale che stava per spedirlo all’altro mondo. La medicina si sarebbe presa una rivincita influenzando temi, personaggi e perfino forme narrative di parte della sua produzione letteraria.

I lasciti indiretti non riguardavano solo la figura dell’ottuso e bonario dottor Watson, a cui spettava, com’è noto, la funzione di esprimere la falsa soluzione dell’intrigo poliziesco; o il procedimento di analisi degli indizi che ricalcava i meccanismi della diagnosi clinica in un’età in cui, ricordava Foucault, un nuovo sapere nasceva dall’osservazione e dalla classificazione. Il modello per «le abduzioni creative» di Sherlock Holmes era stato, ad esempio, Joseph Bell, suo insegnante all’università di medicina di Edimburgo, e al quale il giovane Arthur aveva fatto da assistente nell’ospedale cittadino; così come dietro le fattezze del professor Challenger de

Il mondo perduto si nascondeva un altro docente, William Rutherford. Durante la sua formazione e subito dopo la laurea, Conan Doyle aveva svolto una sorta di praticantato come medico di bordo sulle navi, ma le successive esperienze nello studio a Southsea lo avevano profondamente frustrato. Anche l’ambulatorio che aveva poi aperto nella primavera del 1891 a Londra, con la specializzazione in oftalmologia, era rimasto pressoché deserto. La sua carriera letteraria volgeva invece a un punto di svolta: nel luglio dello stesso anno la rivista Strand pubblicava Uno scandalo in Boemia, la prima delle avventure dell’investigatore con la pipa e il cappello ad avere successo, il che gli consentì di lasciare la professione medica e finalmente vivere scrivendo.

Le storie de La lampada rossa uscirono invece nel 1894, quando Conan Doyle era ormai uno scrittore a tempo pieno, lavorava anche per il teatro e firmava sui giornali; qualche mese prima, per la costernazione dei lettori, dell’editore e della madre Mary, seguace devota delle sue imprese, era riuscito a far precipitare Holmes da una cascata svizzera (per resuscitarlo nove anni dopo), reo di distrarlo dalla produzione di opere più serie, come i suoi amati romanzi storici. Nel complesso i racconti sembrano proporre un’istanza di conciliazione, declinata con ironia e disincanto, rispetto al trauma di una vicenda personale fallimentare. Una pletora di discepoli d’Ippocrate popola queste pagine: sono luminari della scienza o mediocri dottori di campagna, figure allegoriche piacevolmente alle prese con casi interessanti e malattie sconosciute e perfino, nel racconto più bello (I medici di Hoyland) uno scienziato donna che spazza via il conservatorismo culturale e politico che considerava la medicina una professione non adatta a loro. Scene di vita quotidiana dentro le stanze dei dottori vittoriani, dalle trame un po’ ripetitive e il finale a sorpresa, secondo lo schema della narrazione breve con suspense che Conan Doyle padroneggiava assai bene; come dei piccoli intrighi che risveglino l’interesse del lettore e svolgano, negli auspici di chi li aveva scritti, «il ruolo del tonico in medicina, amaro di sapore ma tonificante nel risultato».

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