Henry Miller su Tuttolibri
La prima volta Parigi ti fa ubriacare. (Tuttolibri del 24 luglio 2010 – La Stampa)
di Gabriella Bosco
Henry Miller – L’incontro nel 1928 con la città così attesa, così diversa
«Imbarco giovedì. Ci vediamo là!». Le ultime parole del libro sono la chiave del suo attacco. Henry Miller – dopo un fine settimana di sesso furioso a tre con Amy e Suzanne, ragazze incontrate a Central Park – ricevette un cablogramma con il quale Mona gli dava appuntamento. Partivano per l’Europa. Lui non ci era mai stato. Era il giugno 1928. Miller lasciò al loro destino le due ninfomani, per in- traprendere il viaggio di cui racconta inNexus II, inedito per l’Italia che Passigli propone con il titolo narrativoParigi 1928 : l’ideale prosecuzione del ciclo composto daSexus,Plexus e Nexus, un manoscritto venuto alla luce solo pochi anni fa che contiene la premessa autobiografi- ca alla vita di Miller scrittore. È il testo in cui egli narra la sua scoperta del Vecchio Continente: è la prima volta di Miller in Europa e ha il gusto saporito ma impreciso dell’aspettativa, il desiderio di trovare qualcosa che corrisponda a un’idea, un misto di timore e speranza che quell’idea in sé grandiosa si riveli poi inferiore o comunque diversa dalla realtà. Val, alter ego romanzesco di Miller, viene portato a Parigi dalla seconda moglie June Mansfield – Mona, nella finzione – ballerina e attrice. Lei gli ha promesso l’incontro con la cultura europea, gli ha raccontato di caffè in cui a ogni ora del giorno e della notte si può discorrere con Gide, Cocteau, Picasso. Gli ha parlato di vini e di cibo francese, del Quartiere Latino, di Pigalle, della Sainte Chapelle, la chiesa più bella del mondo. Miller – Val ha deciso che scriverà, e sa quello che vuole scrivere, ma non ha ancora trovato il modo. Si sente come un musicista che ha in testa la melodia ma non conosce le note.
Parigi gli appare come si aspettava che fosse – straordinaria, affascinante – l’atmosfera è perfetta, leimpasses e ipassages sono come li ha immaginati leg- gendone, e così ibistrots e le piccole piazze. La Parigi dellarive gauche, artistica e intellettuale, disperatamente struggente e profumata. Mona lo porta in giro e ogni giorno Miller pensa sia quello in cui avverrà l’impatto, con la Cultura, gli scrittori, i gran- di. Si carica sentendo che tutto è lì, beve seduto a un tavolino alFloreo ai Deux Magots, persino le campane che suonano della chiesa di Saint-Germain contengono la promessa. Il contesto c’è. Corrisponde esattamente a ciò che chiunque abbia immaginato Parigi attraverso la letteratura si aspetta di trovare. Godimento puro. La sorpresa, altrettanto sperata, sta nell’inconsistenza dell’attesa. Nulla in realtà avviene come Miller aveva creduto. Di incontri ne fa molti, è vero, ma di personaggi spiantati, artisti senz’arte, sconclusionati vagabondi. Con loro beve e discorre, anche di libri e scrittori, di arte e pittura, ma si annoia mortalmente. Intanto però cammina, per la città, comincia a farla sua.
Arriva ad averne abbastanza, come accade a chiunque venga a Parigi la prima volta e inavvertitamente se ne ubriachi. Desidera uscirne, poterla pensare con una certa distanza, dalla campagna, dal Sud, la Provenza, Arles, la corrida. I soldi finiscono, gli alberghi si fanno sempre più modesti, tra le righe del racconto compaiono cimici e pulci, lenzuola sudice, pasti saltati. Riemerge Knut Hamsun, modello letterario per Miller. La Francia progressivamente diventa quello che è, e lo scarto tra l’aspettativa e l’esperienza svolge il ruolo sperato. Come dire: Miller trova quel che pensava di trovare ma in modo diverso. È come se scoprisse le note. Val e Mona proseguono poi il viaggio verso Est. Vienna, Budapest, Romania. Il cuore dell’Europa centrale. Arrivano in un buco abbandonato da Dio. Miller si chiede che cosa lo abbia portato laggiù e ricorda: le due ragazze in contrate a Central Park, le trentasei ore di erezione quasi costante, lo sfinimento. E poi, liberatorio, il cablogramma di Mona: «Imbarco giovedì. Ci vediamo là!».