Il paradiso dei celibi
Herman Melville
Le Occasioni
Il libro:
Scritti fra il 1853 e il 1855 per i periodici «Putnam’s» e «Harper’s», i tre racconti che compongono questo volume presentano un Melville forse un po’ inconsueto per il lettore, abituato alla grande epica di Moby Dick o alla drammaticità profonda e disincantata di Billy Budd.
In questi racconti – che si dicono ‘doppi’ in quanto ciascuno di essi ha una parte prima e una parte seconda, in qualche modo dipendente dalla precedente e tuttavia da essa distante nel luogo e nel tempo – la matrice autobiografica è ben evidente, e prende spunto da un viaggio dello scrittore a Londra nel 1849. Come annotava infatti nel suo diario di viaggio, Melville visita la Guildhall il 9 novembre (Le briciole del riccio), assiste alla rappresentazione dell’Otello all’Haymarket Theater il 19 novembre (I due templi) e cena al Temple il 19 dicembre (Il Paradiso dei Celibi): tre episodi descritti dettagliatamente, e che tuttavia arrivano a svelare il loro vero significato solo in relazione all’altra parte di ciascuno di questi racconti, al suo ‘doppio’ narrativo, tratto dalla vita di Melville negli Stati Uniti.
Pagine apparentemente di pura cronaca, dunque, ma che alla fine, nella loro precisa e calcolata simmetria, danno il vero senso del lavoro di Melville, che è quello del disvelamento, come scrive Alessandro Ceni, «dell’ambiguità – morale, religiosa, sociale, storica e, soprattutto, esistenziale – connaturata all’uomo moderno che vive in perenne doppiezza tra quel che presume e quel che è».
Il brano:
«Vedete», affermò con entusiasmo Blandmour, il poeta, una quarantina d’anni fa, mentre si passeggiava per una strada di campagna sul finire di marzo sotto una molle e soffice nevicata, «vedete, amico mio, come questa soccorrevole dispensatrice, la natura, sia benefica in ogni suo atto e, se non bastasse, con quanta attenzione compie i suoi gesti caritatevoli, al pari del più discreto tra i filantropi umani. Questa neve, per esempio, che sembra così fuori di stagione, è in verità ciò che esattamente occorre al povero contadino. A buona ragione questa morbida neve marzolina, che cade proprio prima della semina, a buona ragione vien detta ‘il concime del povero’. Il cielo benevolmente la distilla sulla terra ed essa delicatamente l’intride, e nutre ogni zolla, ogni piota, ogni solco. Per il contadino povero ha lo stesso valore del letame di cui fa uso il ricco agricoltore. Tanto più che il povero non deve neppure prendersi la bega di spargerla, laddove il ricco il suo letame deve pur spargerlo…»
da Il budino del povero