La Repubblica – Henry Miller

HENRY MILLER ‘La prima volta che vidi Parigi’

20 giugno 2010 —   pagina 34-35   sezione: DOMENICALE

St. Lazare. Eravamo arrivati. Dando una rapida occhiata attorno, mi sentii mancare il respiro. Era l’ ora di punta e la stazione fremeva di vita. Continuavo a guardare in alto. Il tetto di cristallo mi affascinava. Non avevo mai visto una stazione così. Eravamo in piedi sul marciapiede, in attesa che il facchino ci trovasse un taxi. Avrei potuto rimanere là per sempre. L’ intera Parigi sembrava sfilare in parata di fronte ai miei occhi. Proprio così. All’ improvviso mi sentii completamente perduto. Non si trattava più né dell’ Europa, né della Francia, né di Parigi, ma di un vortice nel quale stavo annegando senza essere neppure capace di gridare “Aiuto! Aiutatemi!”. (E in effetti mi ci vollero mesi per scoprire che «Aiuto!» si dice ” Au secours !”. L’ unica cosa che mi veniva in mente era ” Alp! Alp! “, che significa incubo in una qualche lingua strana. Non era forse Strindberg che, tremando fra i rami invernali di un albero, continuavaa ripetere” Alp! Alp! “?). Facendoci largo in quel labirinto di traffico, passammo davanti alla statua di Giovanna d’ Arco, all’ Obelisco, poi traversammo il ponte e raggiungemmo Boulevard St. Germain. Non riesco a reggere tutto questo in una volta sola, è troppo per inghiottirlo in un solo boccone. Tutto quel che riesco a dire è “Che città! Che città!”. A un certo punto ci fermiamo di fronte a un albergo… il Grand Hotel de France. Mona ha già alloggiato qui,ea quanto pare conosce la proprietaria. Il portiere di notte col suo panciotto verde biliardo la riconosce e la saluta con calore. Il bagaglio viene trascinato nella nostra stanza. Subito il portiere si dirige alle finestre e le apre. Abbiamo un balconcino che si affaccia sulla strada, rue Bonaparte. Nel momento stesso in cui esco sul balcone le campane della chiesa si mettono a suonare. Che bel modo di darci il benvenuto a Parigi! Ascolto con orecchie nuove; è la prima volta in vita mia che il suono delle campane di una chiesa significa qualcosa per me. Ma presto si intromette il suono dei clacson, e un carro dei pompieri percorre di volata la strada stretta. Sono pompieri veri? Sono la copia esatta di quelli con cui giocavo da bambino. Cosa devo aspettarmi adesso? Disfiamo le valigie, ci laviamo e ci dirigiamo alla volta del boulevard per bere qualcosa. Continuo a tremare per l’ eccitazione. Mi pare che tutti ci osservino. Che soprattutto fissino Mona. Troppo trucco, probabilmente. O magari i suoi vestiti. O forse vedono in lei qualcosa di diverso? Ci sediamo in un piccolo caffè, non ai Deux Magots, che è là sull’ angolo. Adesso Mona sta parlando… dieci parole al secondo. Mi aggiorna sul quartiere, indicandomi dove si è imbattuta in questo e in quest’ altro… Borowski, Hemingway, Kokoschka, Tihanyi. Dove mangiare senza spendere troppo quando i soldi iniziano a scarseggiare. Quali sono le librerie più eccitanti. Dove la sera si può incontrare Picasso, o Marcel Duchamp. Dove non andare perché ci sono troppi americani. Dove si possono comprare sculture africane… o bastoni da passeggio come quelli che ostenta Borowski. Come orientarsi in metropolitana. Dove proiettano i film di avanguardia. Quali sono gli aperitivi più gustosi. “Prova un Pernod!”, dice. Io finisco la mia birra e Mona ordina due Pernod. “Mi ripeti com’ è che si dice?”. Vorrei essere capace almeno di ordinarmi da bere quando sono solo. “Puoi ordinare in inglese – risponde – . Tutti parlano inglese da queste parti”. “Ma io non voglio parlare in inglese. Non voglio che mi prendano per un americano”. Mona mi ride in faccia. “Sarai sempre un americano! – sbraita – Non cercare mai di essere altro. E poi, ai francesi piacciono gli americani”. “Bene – ribattei – . Basta che non mi prendano per un soldato inglese”. Il Pernod era meraviglioso. Sembrava schiarirmi la mente. “Io non ne prenderei altri- fece Mona – . Prima mangiamo. Conosco un posticino carino non lontano da qui… in rue Jacob. Ogni tanto ci va André Gide”. Mentre Mona parlava, io guardavo le donne che passavano. Ma non ne avevo ancora vista una stupefacente. La maggior parte mi sembrava piuttosto normale, nonostante avessero tutte un bel portamento. “Poi un giorno andremo alla Brasserie Lipp – stava dicendo Mona – . Ci sono tutti quelli di cui si sente sempre parlare. È…”. “Scusami – dissi – ma c’ è la prima donna stupefacente che ho visto da quando siamo qui”. Indicai una ragazza in piedi sul ciglio del marciapiede. “Oh, quella! – esclamò Mona – È una modella molto famosa. Posa per Soutine, credo, o forse per Matisse. Un po’ in carne, non credi? Ma è così che piacciono qui”. “A me sembra bella – dissi – . Anche a me piace un po’ di carne”. “Dovrò portarti in qualche bordello, prima o poi”. “Cosa?”. “Sì, in un bordello. Anche le donne ci vanno, sai? Proprio come gli uomini… La gente se ne sta seduta a bere… non devi mica andare con le ragazze, se non ti va”. “Preferirei andarci da solo. Mi sembra una follia, trascinare mia moglie in un bordello”. “È divertente – ribatté Mona – . Ci vanno tutti”. Mentre andavamo al ristorante – facendo una piccola deviazione per dare un’ occhiata alle pittoresche strade del quartiere – i miei occhi si bearono di tutto fin nei più minuti dettagli. Che strade meravigliose per un uomo che per tutta la vita ha cercato disperatamente qualcosa di diverso! © Edizione originale: The Estate of Henry Miller Copyright edizione italiana: Passigli Editori
Traduzione di Simone Garzella – HENRY MILLER