Pedro Salinas è uno di quei poeti che hanno fatto dell’amore la loro lingua madre.
Negli anni in cui la Spagna veniva travolta dalla Guerra Civile, lui scelse un’altra via: la parola intima, capace di salvare due persone dal caos del mondo. Come ricorda il curatore Valerio Nardoni, in Razón de amor – Ragioni d’amore (1936)
«tutto vorrebbe essere due
perché siamo due»
e in quanto tale, l’amore diventa non solo sentimento, ma legge universale.
C’è la luce, ma ci sono anche baci e silenzi che non chiedono spiegazioni: il suo è un Eden dove le parole non descrivono, ma formano molteplici creazioni d’amore. In queste poesie c’è la certezza che il mondo può rinascere dal semplice abbraccio di due anime.
Non si tratta, però, di una fuga dalla realtà. Al contrario, scrivere d’amore in quegli anni significava affermare un principio vitale, opporsi al buio che avanzava.
Non c’è mai pura contemplazione, ma continua ricerca: «una meditazione sull’esattezza della parola», capace di dare corpo al sentimento, ed è proprio questo intreccio tra esperienza personale e responsabilità universale che rende le Ragioni d’amore un libro necessario (“l’amore è urgenza”, come direbbe Neruda, solo per citare uno dei poeti in casa Passigli).
Dentro i suoi versi “io” e “tu” diventano sostanza viva, e il “noi” non è né moltiplicazione né assenza di uno dei due. È, semplicemente, una nuova creazione.
Gli amanti, soli contro il mondo, ridisegnano la realtà a loro misura. Non è retorica, ma un atto poetico e umano che trasforma l’amore in fondamento della vita stessa.
Leggere oggi Salinas significa riscoprire una voce limpida, capace di toccare le corde più profonde senza sovrastrutture. E con le poesie ci invita a ricordare che, anche nei tempi più difficili, l’amore resta la ragione ultima, l’unica capace di ridare senso a tutto.
Buona lettura
A lei, a quella che io amo,
non è a quella che si dà arresa,
a quella che si offre cadendo,
per la fatica, a peso morto,
come acqua per legge di pioggia,
verso il basso, sicura preda
della vaga tomba del suolo.
A lei, a quella che io amo,
è a quella che si offre vincendo,
vincendosi,
che per l’impeto della brama
salta dalla sua libertà,
di brama d’amore, sgorgata,
sorgente, oppure airone in volo,
o già scoccata – la saetta –
sulla sua pena vittoriosa,
verso l’alto, ottenendo il cielo.
****
Goffo l’amore va in cerca.
Vive in me come un’oscura
intima forza. Né ha occhi
che esaudiscano la sua ansia
di vedere. Ma li aspetta.
Prova da una parte e l’altra:
imbattendosi nel cielo,
in una carta, o anche in nulla.
Né aria né terra né acqua
gli servono per uscire
dalla sua cava alla vita,
ché non vola o muove passi.
Ama e ama, ama soltanto,
e amare non è un cammino,
né un volo, coi piedi, le ali
di altri esseri. L’amore
va soltanto al suo destino
con le ali e con i piedi
che nascono tutti i giorni
dalle sue viscere, e mai
toccarono terra, o aria,
e che mai furono usate
in altri voli o giornate
che del suo vergine impiego.
E così finché non gli escano,
forze di piuma alla schiena,
nuovi piedi,
è come una massa oscura,
sotto il fondo del suo mare,
in attesa finché arrivino
forme di vita alla sua ansia.
Si avvicina il mondo e gli offre
uscite, ma uscite vaghe:
una rosa, non gli serve.
L’amore non è una rosa.
Un giorno azzurro; l’amore
non è neanche un mattino.
Gli porge ombre, degli spettri
che non si possono prendere,
pieni di grazie incorporee;
ma un amore, anche venisse
dalle ombre,
è sempre quel che si abbraccia.
E infine gli porta un sogno,
sogno così somigliante
che si sente tutto un brivido
di imminenza, al bordo ormai
della forma che aspettava.
Che aspettava e che non è:
perché un sogno è un sogno vero
solamente
quando in materia mortale
esce dal sogno e si incarna.
E là ritorna l’amore
alle sue viscere,
lavorando senza sosta
con fede che da lui esca
il suo stesso uscire, attesa
forma di viversi, quella
che non si può ritrovare
se non a forza
di sperare non sperando:
a forza di amàrla tanto.
****
Lì ci siamo incontrati.
Com’è stato l’incontro?
Fu come bacio o pianto?
Ci trovammo
con le mani, cercandoci
a tentoni, con grida,
urlando, con le bocche
che baciavano il vuoto?
Fu un urto tra materia
e materia, battaglia
di petto contro petto,
a forza di contatti
trasformata in vittoria
esaltante di entrambi,
un patto portentoso
del tuo essere col mio
interamente?
O fu invece così
facile e senza sforzo,
come una luce incontra
altra luce, ed il mondo
ne resta illuminato
senza nulla sfiorarsi?
Questo non lo sappiamo.
Né dove. Sulle mani,
qui, come cicatrici,
o laggiù dentro l’anima,
come anima dell’anima,
perdura il portentoso
sapere che ci siamo
trovati, e che il suo dove
è per sempre precluso.
È stato così bello
👉 Scopri qui l’altro approfondimento su Pedro Salinas: La Voce a te Dovuta
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Ed è in quel paradiso
delle epoche dell’anima,
laggiù, nel più remoto,
che si trova il tuo nome.
E anche se io lo richiamo
nella mia, alla tua vita,
con la bocca, al tuo orecchio,
dentro questa realtà,
poiché non lascia impronte
nella memoria o i segni,
e tu appena lo avverti,
nitido e momentaneo,
esso torna al suo cielo
tutto alato di oblio,
sembra detto in un sogno,
solo in un sogno udito.
Così, ciò che tu sei,
quando io te lo dico
non lo sarà nessuno,
nessuno potrà dirtelo.
Perché né tu né io
conosciamo quel nome
che su di me discende,
passeggero di labbra,
ospite
fugace delle orecchie
quando dalla mia anima
lo senti nella tua,
senza poterlo cogliere,
né saperlo io stesso.
****
Delle volte un no nega
più di quanto voleva, si moltiplica.
Si dice «no, non verrò»
e si disfanno le infinite trame
lentamente intessute da dei sì,
si negano promesse che nessuno ci ha fatto,
non altri che noi stessi, nell’orecchio.
Ogni breve minuto ricusato,
– forse quindici, trenta? –
si amplia di senza fine, è come secoli,
e un «no, stanotte no»
può negare l’eterno delle notti,
la pura eternità.
Difficile saper dove ferisce
un no! Innocentemente
esce da labbra pure, un puro no;
senza macchia né ardore
di ferire, va in aria.
Ma l’aria è tutta piena
di speranze che volano, le incontra,
e le trafigge nelle tenere ali
con grande forza cieca, non volendo,
le lascia senza vita e si conficca
nel tetto azzurro che ci figuriamo
e lì apre una crepa.
O lì rimbalza
e il suo ferreo colpire
fa la strada a rovescio e gli dilacera
il petto, al petto stesso che lo disse.
Un no spaventa. Va sempre lasciato
al bordo delle labbra e dubitarne.
O dirlo così dolcemente
che arrivi
a chi non l’aspettava,
con il suono d’un «sì»,
se anche non disse sì chi lo diceva.
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