Le prime poesie d’amore di Neruda, Lorca, Pessoa

L’amore ha mille forme, mille parole e mille straordinarie sfumature.

Neruda, con la sua passione travolgente e i suoi versi sensuali, dipinge l’amore come un’esperienza totalizzante e carnale. Pessoa, attraverso i suoi eteronimi, esplora l’amore in una dimensione più intellettuale e frammentata, riflettendo sulla complessità dell’identità e dei sentimenti umani. Lorca, infine, intreccia amore e tragedia, con immagini vivide e simbolismo, rivelando le profondità dell’anima umana e le sue sofferenze.

Tuttavia c’è molto di più che lega questi tre autori: ciascuno di loro ha contribuito all’innovazione della poesia, rompendo con le tradizioni precedenti e sperimentando nuove forme espressive; ma soprattutto hanno vissuto in periodi di grandi stravolgimenti sociali e politici, e la loro poesia ne è diventata riflesso e arma.

Neruda con la sua partecipazione attiva alla vita pubblica cilena; Pessoa con il suo occhio severo ai cambiamenti culturali in Portogallo, e Lorca con il cuore spezzato durante la tumultuosa era della Guerra civile spagnola.

 

Neruda, Lorca, Pessoa: i tre autori di Passigli

Nella nostra redazione ci siamo chiesti: “quali sono le poesie che più ci piacciono di questi tre autori?” E per ciascuno abbiamo cercato di dare una risposta che non fosse soltanto di natura estetica, ma che riuscisse a far scorgere la vita segreta del poeta.

 

La prima poesia d’amore di Neruda

In particolare di Neruda riportiamo la poesia d’amore Farewell, tratta da Crepuscolario, che lui stesso definirà infantile. Eppure proprio perché infantile, sembra andare dritta al cuore, priva com’è di intellettualismi, di parole astruse o ampollose. Anzi, a dispetto del tempo e della critica, godrà di una fortuna tutta sua. Lo stesso Neruda ricorderà le tante persone che fermandolo per la strada iniziavano a recitare i versi di Farewell:

Amo l’amore che si divide in baci, letto e pane.
Amore che può essere eterno o fugace.
Amore che vuole libertà per tornare ad amare.
Amore divino che viene, amore divino che va […].
Fui tuo, fosti mia. Che altro? Uniti formammo un angolo sulla via dove passò amore.
Fui tuo, fosti mia. Tu sarai di chi t’amerà, di chi coglierà nel tuo orto ciò che ho seminato io.
Io me ne vado. Sono triste: ma sempre sono triste. Vengo dalle tue braccia. Non so dove vado.
[…] Dal tuo cuore mi dice addio un bimbo. E io gli dico addio.

Crepuscolario è una raccolta dedicata ai tramonti che il Neruda sedicenne guardava dal balcone, e per pagare la stampa non solo sarà costretto a vendere i pochi mobili, l’orologio regalato da suo padre e il “vestito nero da poeta”, ma cederà tutti i diritti “per l’eternità” a un editore della zona.

«… Nella calle Maruri n. 513 terminai di scrivere il mio primo libro. Scrivevo due, tre, quattro, cinque poesie al giorno. Alla sera, quando il sole tramontava, davanti al balcone si svolgeva uno spettacolo giornaliero che io non perdevo per nulla al mondo. Era il tramonto del sole con un grandioso accumularsi di colori, con zone di luce, ventagli immensi di arancione e di scarlatto…»

Il trucco funziona: Crepuscolario ha una diffusione straordinaria, anche tra le persone più lontane dalla poesia, che scoprirono così un poeta diverso dagli altri capace di scrivere in modo semplice, ma in grado, in quella semplicità, di trasmettere tutta la sensualità di un amore fremente e malinconico.

 

Poesia d’amore di Pessoa

Dopo aver ragionato tanto, la nostra scelta è ricaduta su Poesie d’amore di Ricardo Reis, eteronimo di Fernando Pessoa, ma anche lato (o personaggio) più “amoroso” del poeta. Discepolo di quell’Alberto Caeiro, il vero maestro di tutti gli eteronimi (nonché dello stesso Pessoa), Reis porta alle estreme conseguenze il tentativo di «riedificazione pagana» che già da Caeiro prende le mosse; ed è in questo tentativo che occorre inserire anche la vena amorosa del poeta, una vena amorosa del tutto sui generis, in quanto il paganesimo di Ricardo Reis è innanzitutto accettazione di antiche verità, così che «ciò che sentiamo dentro come verità lo traduciamo in parola, scrivendo versi senza preoccuparci di sapere a cosa siano destinati».

La poesia d’amore pare quasi non sfiorarlo, eppure occorre chiedersi, al di là della scissione ironica connaturata all’adozione di un eteronimo, che cosa spinge un poeta a inventarsi una serie di autori in cui di volta in volta incarnarsi, se non per il desiderio di colmare una propria “insufficienza” o “impossibilità”, vissute appunto come tali?

In un certo qual modo Reis simboleggia l’eredità classica nella letteratura occidentale, espressa con simmetria, armonia, una certa vena bucolica, con stoicismi; le sue poesie – o meglio, le sue Odes (Odi) – infatti s’ispirano ai classici greci e latini, soprattutto alla filosofia epicureista.

 

Non sono nulla

Non sono nulla, non posso nulla,
non perseguo nulla.
Illuso, porto il mio essere con me.
Non so di comprendere,
né so se devo essere,
niente essendo, ciò che sarò.
A parte ciò, che è niente, un vacuo vento
del sud, sotto il vasto azzurro cielo
mi desta, rabbrividendo nel verde.
Aver ragione, vincere, possedere l’amore
marcisce sul morto tronco dell’illusione.
Sognare è niente e non sapere è vano.
Dormi nell’ombra, incerto cuore.

 

Licantropia

In qualche luogo i sogni diventeranno realtà.
C’è un lago solitario
illuminato dalla luna per me e per te
come nessuno per noi soli.

Lì la scura bianca vela spiegata
in un vago vento non sentito
guiderà la nostra vita-sonno
laddove le acque si fondono

in un lido di neri alberi,
dove i boschi sconosciuti vanno incontro
al desiderio del lago di essere di più
e rendono il sogno completo.

Là ci nasconderemo e svaniremo,
tutti vanamente al confine della luna,
sentendo che ciò di cui siamo fatti
è stato qualche volta musicale.

 

L’Altrove

Andiamo via, creatura mia,
via verso l’Altrove.
Lì ci sono giorni sempre miti
e campi sempre belli.

La luna che splende su chi
là vaga contento e libero
ha intessuto la sua luce con le tenebre
dell’immortalità.

Lì si incominciano a vedere le cose,
le favole narrate sono dolci come quelle non raccontate,
là le canzoni reali-sognate sono cantate
da labbra che si possono contemplare.

Il tempo lì è un momento d’allegria,
la vita una sete soddisfatta,
l’amore come quello di un bacio
quando quel bacio è il primo.

Non abbiamo bisogno di una nave, creatura mia,
ma delle nostre speranze finché saranno ancora belle,
non di rematori, ma di sfrenate fantasie.

Oh, andiamo a cercare l’Altrove

 

Le prime poesie d’amore di Lorca

E, infine, non potevamo non parlarvi di “Libro de poemas”. Pubblicato nel 1921, segna il debutto di Federico García Lorca nel mondo della poesia, all’età di ventitré anni. All’epoca il libro non ottenne molta attenzione al di fuori del suo cerchio più stretto di conoscenti. Tuttavia, nonostante i limiti che spesso caratterizzano le opere giovanili, “Libro de poemas” è già una rappresentazione completa del mondo poetico di García Lorca e include alcune delle sue poesie più belle.

E non solo. Mette in luce un talento poetico straordinario e incontenibile, profondamente legato alla musicalità del verso, che sarà il tratto distintivo di tutta la sua opera. Va ricordato che la musica gioca un ruolo fondamentale nella sua prima formazione artistica.

Come osserva Valerio Nardoni nella prefazione della nostra edizione Passigli: “questa è un’opera giovanile e audace, pubblicata con l’impeto e la spontaneità tipica delle creazioni che, se non nascono in un certo momento, rischiano di non nascere mai”.

 

Ballata Triste

Il mio cuore è una farfalla,
bambini buoni del prato!
che presa dal ragno grigio del tempo
ha il polline fatale della delusione.
Da piccolo cantai come voi,
bambini buoni del prato,
liberai il mio sparviere con le pericolose
quattro unghie da gatto.
Attraversai il giardino di Cartagena
invocando la verbena
e persi l’anello della mia felicità
su un ruscello immaginario.
Fui anche cavaliere
una sera fresca di maggio.
Allora ella era per me l’enigma,
stella azzurra sopra il mio cuore intatto.
Cavalcai lentamente verso i cieli.
Era una domenica di lupinello.
E vidi che invece di rose e garofani
ella spezzava gigli con le mani.
Sono sempre stato inquieto,
bambini buoni del prato,
il Lei del romance mi tuffava
in sogni di luce:
chi coglierà i garofani
e le rose di maggio?
E perché la vedranno solo i bambini
in groppa a Pegaso?
Sarà la stessa che nelle ballate
tristemente chiamiamo
stella, supplicandola di uscire
a ballare sui campi?…
Nell’aprile dell’infanzia cantavo,
bambini buoni del prato,
il Lei impenetrabile del romance
dove appare Pegaso.
Dicevo nelle notti la tristezza
dei mio amore ignorato
e la luna lunera, che sorriso
aveva tra le labbra.
Chi sarà a cogliere i garofani
e le rose di maggio?
E di quella piccolina così bella,
che sua madre ha sposato,
in quale angolo buio di cimitero
dormirà il suo dolore?
Io solo col mio amore sconosciuto
senza cuore, senza pianti,
verso il tetto impossibile dei cieli
appoggiato a un grande sole,
Come mi pesa tanta tristezza!
Bambini buoni del prato,
come il cuore ricorda dolcemente
i giorni lontani…
Chi sarà a cogliere i garofani
e le rose di maggio?

 

L’ombra dell’anima mia

L’ombra dell’anima mia
fugge in un tramonto di alfabeti,
nebbia di libri
e di parole.
L’ombra dell’anima mia!
Sono giunto alla linea dove cessa
la nostalgia
e la goccia di pianto si trasforma
in alabastro di spirito.
(L’ombra dell’anima mia!)

Il nodo del dolore
finisce,
ma resta la ragione e la sostanza
del mio vecchio mezzogiorno di labbra
del mio vecchio mezzogiorno
di sguardi.

Un torbido labirinto
di stelle affumicate
imprigiona le mie illusioni
quasi appassite.
L’ombra dell’anima mia!

E un’allucinazione
dispone gli sguardi.
Vedo la parola amore
sgretolarsi.
Usignolo!
Usignolo mio!
Canti ancora?

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