Marcia Theophilo sul Corriere della Sera
La fede nella poesia di Marcia Theophilo per la salvezza dell’Amazzonia.
da Poesia, di Ottavio Rosani.
Corriereblog.
Marcia Theophilo, quasi tutte le sue poesie sono dedicate alla foresta dell’Amazzonia. Perché?
L’Amazzonia è la mia terra. Mia nonna era india e da lei ho imparato i miti e le leggende della foresta e l’identità di un popolo. Questa identità mi è rimasta nel cuore. Sono nata a Fortaleza, nell’Acre, una regione interna dell’Amazzonia, lì mio padre lavorava, lì sono in parte vissuta. Da grande, per capire meglio la cultura india, sono diventata antropologa. Oggi sono una poetessa antropologa. Le mie poesie cantano quel mondo, quella cultura, lo spirito della foresta e i suoi cambiamenti negativi, la necessità di salvare quel “polmone verde” che anima la vita di tutto il mondo, comprese le persone. Noi siamo alberi, perché gli alberi della foresta siamo noi. Senza quegli alberi, senza il soffio di quella membrana verde, il genere umano si estinguerebbe. Perciò io canto un’anima che si sta dissolvendo, canto rumori vitali, canto la bellezza della natura, canto il sogno di un ritorno a un mondo pulito, senza inquinamento, ma anche senza crudeltà. Disboscare migliaia di chilometri quadrati di foresta è pura crudeltà. Non solo verso la natura, la vegetazione, gli alberi, la fauna, ma soprattutto verso gli stessi uomini. Tutti sanno, tutti sappiamo ormai, che se la foresta amazzonica (che attraversa e interessa ben otto stati nazionali) scomparisse, scomparirebbe il mondo che si disseccherebbe, e scomparirebbero gli uomini perché non potrebbeo sopravvivere alla mancanza di ossigeno.
Come antropologa che cosa ha imparato precisamente sulla foresta e sugli indios che la abitano?
Ho imparato che le tribù indie stanno scomparendo, perché piano piano gli uomini da fuori stanno divorando la loro foresta. Ho imparato che nella foresta c’è una lingua autonoma, diversa da quella delle tribù, diversa da tutte le altre lingue.Ho imparato quella lingua e posso sentire come alita l’anima della foresta. Dentro quella foresta c’è il mio cuore che batte, e dentro il mio cuore c’è la foresta che respira. I bambini indios sono lasciati vivere nella foresta. Non hanno paura, perché si sanno adattare. Tutti gli uomini hanno saputo sempre adattarsi alle circostanze ambientali. Così avviene anche nella foresta. L’Amazzonia è il verde del pianeta, ma non solo: è anche l’acqua del pianeta. Il Rio delle Amazzoni attraversa il subcontinente e raccoglie migliaia di altri rios e li conduce fino al mare. L’Amazzonia è ricca di milioni di specie vegetali e animali. E l’albero è il suo simbolo. Sul tronco di un albero possiamo trovare i segni di una storia millenaria. Un solo albero è il centro di un microcosmo vivente in cui l’uomo è tutt’uno con gli altri elementi che respirano. Ho imparato la lingua della foresta e non ho fatto altro che tradurla per far conoscere al mondo, agli uomini sensibili i suoi significati, nella speranza che anche gli uomini “insensibili” e stupidi possano ravvedersi e capire che devono ritirarsi indietro perché quel mondo possa essere salvato, preservato, amato. Sì, può anche essere “usato”, ma in modo intelligente, rispettando l’equilibrio armonico di vegetazione-acqua-uomo. La poesia è l’unico strumento libero, vero, senza condizionamenti, che può colpire il cuore e la mente degli uomini. Perché tutto può essere business, tranne la poesia. Attraverso la poesia, tutti possono capire che gli alberi siamo noi, e che noi siamo alberi. Ho scritto una poesia proprio su questo.
Marcia, allora trascrivo questa poesia per i lettori del blog, poi continuiamo con l’intervista.
Noi alberi
Noi alberi viviamo di piogga
di rugiade eterne e delle brume
dei fiumi e degli oceani
di mattutini vapori
e nebbie delicate.
Durante il giorno il calore
dei raggi del sole
dilata i nostri corpi sublunari
che assorbono così, nel profondo
la soavissima rugiada notturna.
Nós árvores
Nós árvores vivemos de chuva
de orvalhos eternos e das neblinas
dos rios e dos oceanos
de vapores matutinos
e delicadas névoas.
Durante o dia o calor
dos raios do sol
dilata os nossos corpos sublunares
que absorvem assim, no profundo
delicadissimo orvalho noturno.
Marcia Theophilo
Da Amazzonia respiro del mondo (Passigli, 2005)
Marcia, lei ha scritto un libro dedicato ai bambini della foresta amazzonica dal titolo I bambini giaguaro (Os meninos jaguar). Un poema in 176 quadri, brevi, fulminanti, in cui i bambini sono assimilati ai giaguari, come se i giaguari fossero bambini, insomma entrambi figli della foresta che convivono pacificamente, ma scambiandosi caratteristiche e segnali. Trascrivo subito una poesia dimostrativa di questa poetica e le domando: che cosa ha voluto dire con questo poema, che poi nella seconda parte comprende anche i canti de La casa della dea giaguaro, che completano il disegno misterico, magico, animato, della foresta?
LXXXII
Saranno il caititù, il capivara
l’ariranha, il macaco.
Solleva una gamba il bambino giaguaro
come una coda la fa oscillare lieve
gli altri bambini: ariranha
bambino caititù, bambino pappagall
bambino macaco
in un circolo chiuso si difendono
salta da un cerchio all’altro agitando la coda
il bambino guaguaro e gli altri gridano
il cerchio si muove
ed ecco, all’improvviso
il bambino giaguaro spicca un salto.
LXXXII
Serão: o caititù, a capivara
a ariranha, o macaco.
O menino jaguar levanta uma perna
balança levemente como un rabo
os outros meninos: ariranha
menino caititù, menino papagaio
menino macaco
se difende em una roda fechada
o menino jaguar salta de uma roda à outra
agitando o rabo e os outros gritam
a roda se move
de repente, o menino jaguar dá un salto.
Marcia risponde così: Nella foresta i bambini giocano ad imitare gli animali. I bambini giaguaro sono una rivoluzione. Ma non sono violenti. Non vanno all’attacco. Se mai usano le cose che hanno imparato, imitando appunto gli animali, quindi anche il giaguaro, per difendersi. È chiaro che io sto parlando in termini poetici. I versi di questo libro sono orazioni sostenute da un ritmo incalzante. Si tratta di un poema che esalta la foresta, la capacità di adattamento degli umani, a cominciare dai bambini, per evitare le conseguenze dell’invadenza distruttrice della presunta civiltà esterna. Ma il poema dice anche che i bambini cominciano l’esodo verso la città, dove si incattiviscono. E denunciano la cattiveria del mondo che li ha sloggiati dalla loro terra.
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Marcia Theophilo è la poetessa che si è identificata con la Foresta Amazzonica, come ho messo in evidenza nella prima parte dell’intervista. Viene legittima una domanda: può un poeta identificarsi con un tema, con un problema? Sì, è già accaduto con altri grandi esempi della letteratura mondiale. Faccio un solo esempio: Derek Walcott, il quale nei suoi poemi si identifica con la cultura caraibica, anche se con variazioni tematiche che coinvolgono tutte le situazioni del mondo e della cultura, sia nel presente sia in una prospettiva storica. Anche per Marcia Theophilo non si tratta di parlare solo del fiume o della foresta ma di tutto ciò che Amazzonia significa sul piano territoriale, psicologico, antropologico. I temi sono i più vari: la natura, gli animali, le tribù e le loro usanze e le loro storie. C’è un’identificazione tra umanità e foresta, tra natura e persone. La particolarità della sua poesia è che pur consacrando l’appartenenza alla cultura brasiliana, in realtà configura una dimensione più grande, mondiale. L’Amazzonia è il mondo e la poetessa diventa la “voce” del mondo in sofferenza per la sofferenza dell’Amazzonia. È come se un animale fosse ferito e la poetessa cantasse il lamento funebre in attesa della sua morte, sperando però che l’animale possa guarire, salvarsi. La Foresta non è un animale, è un organismo complesso che respira, parla, si lamenta, aggredisce per difendersi, e tuttavia non ha la forza per potersi salvare da solo. E Marcia Theophilo sin dall’inizio della sua scrittura è accorsa e accorre accanto al Grande Ferito cercando di lenire il dololre e di cicatrizzare le ferite.
Quando ci siamo incontrati nella hall di un albergo milanese, dopo un suo recital alla Casa della Poesia, nella palazzina Liberty, non mi aspettavo che avesse ancora tanta energia per ricominciare a perorare la causa dell’Amazzonia ferita. E non pensavo che fosse appassionata, ironica, vibrante d’amore per quella Terra lontana eppure a lei così vicina. Lei vive a Roma, scrive in portoghese e in italiano (tutte le sue poesie se le traduce da sola, anzi le scrive in due lingue in contemporanea), è divorziata (“il divorzio è la vera libertà: in un coilpo, la donna si libera delle due famiglie, quella di prtovenie nza e quella nata dal matrimonio”, ironizza). In pratica è diventata negli anni l’ambasciatrice dell’anima culturale del Brasile nel mondo e la vestale dell’Amazzonia.
Eppure con il presidente Lula qualche dissenso c’è, è vero Marcia?
Ho parlato con Lula tante volte sulla questione dell’Amazzonia. Egli è ben consapevole del disastro che si sta consumando, ma per l’Amazzonia non è riuscito a fare granché, mentre ha fatto molto per il popolo brasiliano. Risolvere la questione dell’Amazzonia non dipende da un solo Paese. Ci vorrebbe un accordo tra tutti i Paesi interessati. È così difficile. Gli interessi delle multinazionali prevalgono su quelli generali delle popolazioni locali. I politici del resto non sono come i poeti, che parlano senza tener conto di interessi o equilibri. La poesia per salvare la Foresta è come una preghiera laica.
Come viene percepita la sua poesia sull’Amazzonia dalla gente che l’ascolta e che la legge?
In genere la gente ha la sensazione che l’Amazzonia sia un luogo esotico. Non conosce affatto la realtà. Ma dopo avere ascoltato le mie “preghiere laiche” nelle performance che durano al massimo un’ora e mezza mi accorgo che ha recepito qualcosa in più, come la rivelazione di una realtà che non poteva immaginare, che non aveva mai pensato potesse esistere veramente in quella dimensione di ferita profonda, di rischio di annientamento. Quando la gente si rende conto che la poesia non è solo musica, ma anche denuncia, proposta, allora partecipa, vorrebbe fare cose concrete. E so per certo che molti, dopo aver ascoltato le mie poesie, hanno cercato il modo di contribuire alla salvezza dell’Amazzonia.
Ma che cos’è, con parole povere, la Foresta?
La Foresta è il complesso degli esseri che la abitano, delle piante che vi crescono e respirano. La Foresta è una lingua, e le parole che la percorrono in lungo e in largo sono gli esseri che la abitano. È un organismo vivente che sta subendo tremende mutilazioni.
Marcia, a questo proposito, vorrei proporre alla lettura dei nostri amici del blog un passo della poesia Urutáu, lo sciamano/uccello della foresta, che si trova nel libro Amazzonia respiro del mondo (Passigli, 2005), che dice:
Incendi, nuvole e fumo insieme
i bulldozers invadono
avanzano, luci lo abbagliano
pensieri feroci lo trapassano.
Dalla città si levano immondizie
Toccano le sue piume
Foglie, lettere vecchie
Fiori di alluminio e di carta.
Scesa la notte Urutáu
sceglie il nuovo territorio.
Non più eterno, vivrà giorno per giorno.
Urutáu uccello disperso,
il tuo bosco è tra i grattacieli
tra i muri di cemento
è il tuo nido.
Urutáu, dice la voce del suo glossario alla fine del libro, è una “figura fantastica creata dall’autrice”. Io la interpreto come simbolo sciamanico, che si identifica anche con un uccello della foresta e ascolta le lingue delle altre specie e si sente praticamente espulso dal suo territorio dall’invasione dei bulldozers e dalla deforestazione, per cui deve trovare un nuovo luogo per fare il nido, comunque per sopravvivere, e non può farlo che tra gli edifici di cemento. Sì, è un lamento; è, come ho detto prima, anche una “preghiera”. È anche un’accusa a chi viola la foresta. Ed è la descrizione di un particolare momento “magico” della vita della foresta, con le sue voci che si risvegliano verso la mattina.
Nel libro Amazzonia madre d’acqua (Passigli, 2007), lei scrive nell’introduzione: “Nel mio lavoro ho cercato di fare una fusione fra memoria emotiva e culturale, tra poesia e documentazione, tra mondo arcaico e contemporaneo. Penso che senza la poesia non si possa raggiungere l’anima della foresta. Non a caso sono poeta antropologa”. Forse non c’è niente altro da dire, dopo queste parole così chiare.
Credo che ci sia sempre molto da dire. Perché la foresta non è un fossile. È un organismo vivente, come il mondo del resto. In genere il mondo, cioè la natura, sa trovare la propria autodifesa. Nel caso dell’Amazzonia questo non accade: perché le modificazioni dovute all’invasione dei bulldozers sono così rapide e violente che il “polmone” non riesce a recuperare. Solo noi umani possiamo salvarla. Per ciò ho voluto studiare l’Amazzonia prima di cantarla, di farla vivere e rivivere nelle parole. Non ho fatto altro che ascoltare le parole della foresta e tradurle per la gente.
Nel libro che sopra ho citato, ogni poesia trae origine da un “rio” e i titoli sono tutti nomi di fiumi, come Rio Tefé, o Rio Arara o Rio Matuete, eccetera. Quasi un’operazione scientifica di studio dei corsi d’acqua nel territorio.
Sì, perché tutto nella foresta è sincretico: un animale crea un rituale, un fiume prende nome da una tribù, così come gli alberi non sopravvivono se scompaiono le api, eccetera. Un fiume può dare nome a una tribù – ho scritto nel libro citato – così come il nome di un rio può derivare da un pesce, da un frutto, un nome di un albero può definire il nome di una persona, di un mito, così come il canto di un uccello o il verso di un animale o il suo nome stesso possono dare nome al fiume. Per questo non si può parlare di una cosa, di una pianta, di un animale o di un indio che vive nella foresta senza tener conto di tutti gli elementi che ne costituiscono insieme l’identità, l’essere.
Può definire la sua poesia? Lirica, epica, o come altro?
Potrei definirla epica, ma non romantica. Forse possiamo parlare di un’epica-documento scientifico/letterario della foresta. La mia poesia scaturisce dalla mia nascita: sono una meticcia, ho ascendenza india, mia nonna era un’india. Penso che la terra sceglie le voci che possano difendere la sua vita. L’Amazzonia ha scelto me. È un’illusione che siamo noi a scegliere; in realtà noi veniamo scelti. Mio padre era poeta che improvvisava versi. Io li scrivo, ma prima li penso e li sento. Nascono dentro di me come voci della foresta. Non faccio altro che registrare le parole che sgorgano da una fonte interiore che non so come definire se non “me stessa”. Vado alla ricerca dei miei archetipi. La vera cultura emerge dall’interiorità senza che l’autore abbia piena coscienza di quel che va dicendo. Una ricerca – per quanto mi riguarda – arcana e arcaica, che è più contemporanea della modernità. Noi siamo il momento attuale della storia, che significa inquinamento e distruzione. Nel 2006 ho pubblicato (Tallone editore) un manifesto ecologico dal titolo “Fratello albero, sorella Dorothy Stang”. Dobbiamo avere il coraggio di criticare la tecnologia, se essa viene usata male. L’Amazzonia è assassinata dal silenzio del mondo, al quale appartiene (e non solo al Brasile). Insomma, si tratta di una violenza perpetrata dalle multinazionali, attraverso le tecnologie, negli ultimi 50 anni. Prima non c’erano le multinazionali e la Foresta aveva conservato il suo segreto vitale. Dietro questa denuncia, c’è il lavoro per la mia poesia, che nasce come ha intuito Mario Luzi da un “amore assoluto e sensuale al proprio tema”. Se non ci fosse questo amore, e anche l’incanto per la bellezza, se non ci fosse la mia adesione sensuale a tale bellezza, non ci sarebbe poesia ma solo denuncia politica. Compongo ogni mio verso come una frase musicale. Senza musica non ci sarebbe né emozione né valore nelle parole. L’epica della foresta non è solo tornare ai ritmi antichi, ma è una dilatazione continua di nuovi ritmi su querlli antichi. Infatti la foresta è immensa.
Ci sarebbero mille altre domande da fare. Ma finiamo con una piccola antologia tratta da Amazzonia respiro del mondo.
Le ninfee.
Erano stelle che cadevano nel fiume, erano stelle:
le vitórias régias. Io so – Yanoá pensa –
non solo gli animali ma tutto in natura ha un’anima,
un’anima alata che lascia il mondo quando sogna. E
sogna sempre luoghi ignoti. “Yanoá, Yanoá sveglia!
che gli uccelli possono portarti via sulle loro ali,
i sogni possono distruggerti”.
Si svegliava spaventata dalle sue stesse grida.
Gli uccelli vogliono strapparmi l’anima,
io non voglio restare sola con i pensieri.
Il suo volto s’illumina e i capelli spessi le scendono
lisci sul viso rugoso, antico, scolpito dai sogni e dal sole.
Un giorno Yanoá andrà con i suoi sogni, andrà con Yara
sul fondo delle acque. «Yanoá vieni a giocare con me, proteggimi
dai pesci che governano le acque e le piante,
cresciute in fondo al mare.
Tutto il giorno i pesci vanno e vengono
fra i tuoi lunghi capelli».
Delfino rosa.
Nei lunghi mesi di pioggia quelle voci
sibilanti tra spume: i delfini
nascono dalle acque profonde.
Corpo vermiglio-rosato corre, vola
la pelle, frutto tenero e liscio,
porta memorie, si culla nelle onde
dei tropici, vicino all’equatore
scherza nella laguna, nel fiume denso di suoni
all’improvviso appare in mezzo alla foresta.
Corpo-sapore dolciastro porta a riva
un delfino, parto al chiaro di luna
affronta dolore alla nascita
penetra l’astro doloroso del tempo,
materia, sangue, nelle acque, geme
un parto un solo figlio, lo allatta
uno scambio di sguardi, il latte scaturisce
tra i sussurri nasce un dio: il Boto.
Madre acqua.
Creature, bambini nudi, aurora della vita
guerrieri di favola, cantori di luce
aprono le loro ali di uccello e volando
si trasformano in cobra, bianche lunedì
bambini, creature nude dell’alba.
Le fiamme animano i rami degli alberi
ma la madre acqua affonda nella terra
le sue un ghie come rettili d’acqua, serpenti
arcobaleno, la madre acqua, fiori dai petali radiosi
agita il dio Tupã addormentato.
E la canzone delle ali aperte sono cascate,
pianti, voci vive, grida.